Il cibo e la mente riflessioni di uomini semplici, campagnoli e se vogliamo contadini rivolte ai più giovani.

Un noto filosofo affermò che la ricerca del cibo e dei sapori altro non è che la perenne ricerca di quella che fu la nostra infanzia.

Qualcosa di vero dovrebbe esserci in questa affermazione se l’interesse e la passione per il problema alimentare sono così vivi nelle maggior parte della gente ormai stanca dei sapori che non hanno più sapore.

Ecco così che nasce il ricordo dei sughi preparati dalle nostre mamme dalle otto di mattina a mezzogiorno che ci fanno capire, fin da bambini, cosa vogliono dire premura, attenzioni, devozione per il mangiare.

Quella meticolosa e religiosa attenzione ci devono rendere gradevoli rituali domande, “hai mangiato?”, “con chi hai mangiato?”.

L’aver mangiato è conferma di star bene, l’aver mangiato insieme a qualcuno è conferma che non si è soli, dà sicurezza e tranquillità.

Anche cosa significhi sacralità del cibo lo capiamo dai moniti che ci venivano dati dai nostri genitori o i nostri nonni a non far cadere le molliche per terra: saremmo dovuti tornare da morti a raccogliere quanto sprecato da vivi.

Risale a quell’educazione alimentare dell’infanzia il senso di fastidio che dobbiamo provare quando vediamo il cibo buttato, ammassato, sprecato, come avviene nelle nostre città.

Potremmo buttare tutto, soldi, libri, telefoni, il tempo, ma non possiamo buttare il pane.

 Come procede questa Triglia …fatemi sapere. La vostra opinione è fondamentale. 

 

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